18 luglio 2015

Negare: fase finale di un genocidio

L'Arena, 10 luglio 2015, di Maria Vittoria Adami

La Russia ha votato «No» alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che condanna il massacro di Srebrenica e che è considerata dalla Serbia un'umiliazione. Ha bloccato così l'adozione della risoluzione, negando il genocidio. Un ritorno indietro di oltre dieci anni: nel 2004 il Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra della Ex Yugoslavia (IctY) riconosce, per il massacro di Srebrenica, la parola «Genocidio».
Lo fa anche la Corte internazionale di giustizia. Cinque ufficiali serbo-bosniaci, per questo, sono stati condannati e sono in corso i processi dell'IctY a Radovan Karadžic, ex leader serbo-bosniaco, e al suo generale Ratko Mladić. Eppure, non si parla di genocidio in Serbia e tra i serbo-bosniaci che lo definiscono un'invenzione. La chiesa ortodossa, l'11 luglio, celebra il Festival della luce, commemorando alcuni serbi caduti per mano bosniaca nel '92. Si respira divisione a Srebrenica, dove le donne incontrano ostacoli per commemorare i loro morti.
«Non fu genocidio», si dice in Serbia. Eppure l'assassinio di 8.372 persone non si improvvisa. La giornalista Azra Nuhefendic in un recente contributo per il «Dossier Srebrenica» pubblicato dall'Osservatorio Balcani Caucaso, spiega che non lo si può definire un «crimine accidentale»: «Il genocidio non è un’azione spontanea. È un progetto ben pianificato, organizzato e realizzato sistematicamente. C'è voluta una grande organizzazione per ammazzare, in una settimana, ottomila persone, scavare le fosse comuni, seppellire, e dopo riesumare i corpi e sotterrarli di nuovo in una seconda e in una terza fossa. Non è un lavoro per dilettanti. Il negazionismo è diventato una strategia di Stato. Negando la colpa si continua a provocare dolore alle vittime. Non a caso il negazionismo è considerato l’ultima fase del genocidio». 

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