Se non fossimo davanti al memorial center di Potočari, dove ogni 11 luglio si ricorda il genocidio musulmano del 1995 con un grande funerale collettivo, sembrerebbero i prodromi della giornata mondiale della gioventù. Lo faccio presente a Emir. In luoghi come questi, in genere, non è facile trovare ragazzi. Invece tra donne velate, anziani e famigliole, tutte accampate alla bell'e meglio, i volti giovani sono tantissimi. «Sono quelli che 18 anni fa erano bambini. Vengono da tutta la Bosnia, ma anche dal Canada e dall'America. Sono scampati con le loro madri al genocidio», mi spiega Emir. Erano piccoli allora, quando i serbo-bosniaci rastrellarono le zone circostanti, radunando i bosniaci musulmani e selezionadoli in due file: a sinistra si viveva (era per donne e bimbi); a destra si moriva (era per uomini e ragazzini).
I furgoni delle reti televisive, che il
giorno dopo trasmetteranno la cerimonia in diretta sono già in
postazione.
Ragazzi vanno e vengono, con magliette colorate e
bandiere al collo. Da una panchina mi chiama un giovane. Ha gli occhi
celesti e cicatrici sul viso. Mi chiede se sono giornalista,
indicando la macchina fotografica al collo, e mi dice che conosce
Giuliano Ferrara. Mi racconta di essere stato in Italia durante la
guerra, perché era stato colpito da una scheggia. Fu operato nel nostro paese e in quell'occasione Ferrara lo intervistò, mi dice.
Gli scatto una foto e gli chiedo il suo nome: «Ibrahim, ma non come
il calciatore». E ci salutiamo.
Al memoriale nel frattempo, sono state
già posizionate centinaia di bare, fianco a fianco, ricoperte da un
tessuto verde. L'indomani saranno sepolte. Hanno un numero davanti
e custodiscono ciò che resta di 409 delle 8372 vittime del genocidio
operato dalle truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić
tra il 9 e l'11 luglio del 1995. Sono state riconosciute nell'anno in
corso grazie alle prove del Dna, effettuate a Tuzla da un'apposita
Commissione internazionale. Dopo 18 anni trovano riposo. Alcuni
parenti sono già arrivati. Donne chine sulle bare piangono. Uomini
composti poggiano una mano sulla cassa del figlio o del padre e
pregano. È un viavai silenzioso, come silenzioso e rimbombante è il
grande capannone di fronte al memoriale, che ospiterà le autorità
domani. È la fabbrica di Potočari
che 18 anni fa faceva da base Onu a difesa della zona protetta di
Srebrenica. Qui vi si rifugiarono 300 civili che cercavano
protezione dal pericolo serbo: le truppe di Mladić minacciavano di sfondare l'area. E quando lo fecero, i caschi blu olandesi commisero l'errore di far uscire alla spicciolata i musulmani bosniaci dalla fabbrica, consegnandoli di fatto ai serbi, che li ammazzarono (Per quelle morti, la corte dell'Aja, nel gennaio 2015 ha riconosciuto la responsabilità dell'Olanda).
Oggi, nella parte centrale della fabbrica, una fila di
teche contiene i ricordi di chi non c'è più: orologi, quaderni,
oggetti personali che hanno ridato volto, nome e storia ai corpi
dissotterrati dalle fosse comuni nei dintorni di Srebrenica. C'è
Rijad Fejzić,
di 18 anni. La sua ultima foto è di quando ne aveva 11. Nella teca
ci sono i suoi quaderni. Voleva fare il pilota da grande, invece,
mentre si dirigeva a piedi verso Tuzla, fu portato dai serbi a
Potočari con la madre e messo in fila con altra gente. A lei ordinarono di andare a sinistra, a lui a destra. E non tornò
più. Aveva 57 anni, invece, Ahmo Avdić, che amava fumare. Ci sono le sue sigarette nella teca. Mentre
caricava su un furgone moglie e figlie, a Potočari, fu selezionato
dai Serbi. E fu ucciso.
Sono
migliaia le storie come queste. 8372 per la precisione, che domani le famiglie ricorderanno al memorial center. «Sentirete
un'atmosfera particolare», ci dice Lejla. «Sentirete i morti e il
dolore che si respira».
Altre foto le trovi qui
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