11 agosto 2013

11 luglio a Srebrenica


Alle 8 del mattino, già ci si può fare un'idea di quello che accadrà in poche ore al Memorial center di Potočari: ogni anno, l'11 luglio, si ricorda il genocidio musulmano di Srebrenica con un accorato e suggestivo funerale collettivo. E ogni anno sono sepolti i corpi riesumati dalle fosse comuni alla fine della guerra, riconosciuti nell'arco degli ultimi 12 mesi, grazie alle prove del Dna effettuate a Tuzla. Quest'anno saranno 409.



I pullman arrivano di buon mattino, lasciando centinaia di persone nel grande prato antistante la lugubre fabbrica di Potočari, che sa di ruggine e dolore.
La preghiera in lingua araba rimbomba sulla spianata del memoriale, costellata di cippi di marmo cangianti ed è già un brulicare di veli di donne dai mille colori. Quella litania mi entra in testa, quasi ipnotizzandomi, mentre mi faccio largo tra le persone davanti all'ingresso, seguendo Samra: ha 27 anni, è di Gračanica e mi accompagnerà fino a Sarajevo, stasera. Il suo ricordo della guerra è molto più diluito di quello di Lejla. Il conflitto è passato per casa sua solo perché il padre era impiegato in un ospedale vicino, dove ricoveravano i soldati. Non ha altre esperienze.

Ai cancelli d'ingresso, tra la ressa, c'è un uomo con una giacca grigia che guarda dei fogli appesi al muro. Vicino due donne li scorrono col dito. È l'elenco delle bare. A ogni numero corrisponde un nome, perché finalmente quel nome corrisponde a un corpo, racconta una storia e ha una famiglia che può piangerlo su una tomba.
Tra i cippi in marmo, all'interno, ci sono nuove fosse, con un pezzo di legno verde a indicare la posizione per ciascuna delle 409 bare, schierate subito dopo l'ingresso. Ancora qualche ora di preghiera, poi per loro ci sarà la sepoltura.

Samra si fa scivolare dal collo la pashmina verde smeraldo, alzandosela sul capo. Le chiedo se devo fare altrettanto, ma mi dice che non sono obbligata. Che solo le donne musulmane devono. Ma i miei capelli castani sciolti sono gli unici a spiccare in quell'arcobaleno di fazzoletti e foulard e un po' mi sento a disagio, anche se nessuno sembra farci caso. Poi tra la folla scorgo un paio di fotografe spagnole coi capelli al vento e una famigliola di turiste biondissime.

Samra dice che è la prima volta anche per lei a Srebrenica. Ha comprato un fiorellino bianco con il cuore verde, fatto all'uncinetto, da due ragazze all'ingresso che li vendono con un cestino di giunchi intrecciati; è la margherita di Srebrenica; è per sua sorella, ma me la regala, spiegandomi che il bianco è il colore della purezza e il verde un colore caro ai musulmani.
Mi guida tra la folla, dicendo che la preghiera che sento è araba, ma non la capisce perché non conosce la lingua.


Passiamo a fianco delle bare. C'è una ragazzina che prega. Una mano regge un libro, l'altra accarezza la cassa. Una giornalista (nel memoriale ci sono troup televisive ovunque) si fa largo tra le donne in lacrime. La raggiunge e le sbatte il microfono a due centimetri dalla faccia. Lei alza lo sguardo lentamente; risponde gentile qualcosa che non capisco, ma le chiede anche di essere lasciata sola e la giornalista rispetta la richiesta e se ne va. Poco più in là, sempre tra le bare, ci sono crocchi di madri sorrette dai mariti, vedove confortate da sorelle, con gigli e rose rosse in mano.
Troviamo posto su una collinetta in alto. Da lì il memoriale sembra un formicaio, che pian piano si riempie. La litania, che – complice il sole cocente – mi ha mandato in trance, si spezza all'improvviso per le dolci note di «Srebrenica inferno». Una voce di bimbo canta sulla fiumana di persone ammassate tra le tombe. Sono parole dolci e di dolore. Samra me le traduce man mano che ascoltiamo, perché questa volta si tratta di una canzone in bosniaco. Ed è un richiamo alla famiglia che non c'è più e alla Bosnia che ora è la madre di molti orfani.

Scorgo fisionomie di ogni genere. Donne cerulee dagli occhi di vetro e capelli d'oro. Anziane dalla pelle olivastra, ciocche ingrigite e profonde rughe scavate più dalla vita che dalla vecchiaia. Ci sono uomini alti e magri che sembrano quelli visti nei servizi dei telegiornali: quelle carrellate di prigionieri nei campi di concentramento che negli anni Novanta non riuscivo a credere fossero sorti nei Balcani, davanti alla porta di casa. Non dopo la Shoa di metà Novecento.
Ci sono volti zigani, capelli scuri, baffi folti sotto coppole nere o riccioli mediterranei che spuntano dai veli. E veli. Una girandola  di veli di tutte le fattezze e colori.

Se n'è ormai andata quasi tutta la mattinata. Su un grande schermo si vedono le immagini all'interno della fabbrica, dove si sono incontrate le autorità, impegnate nella celebrazione civile e in un giro di interventi tra i quali manca sempre quello di parte serba, che non riconosce il genocidio.

Al memoriale, il rito religioso continua con la preghiera in arabo lanciata dal megafono e lo farà per le prossime ore, scendendo sulla spianata come un lenzuolo. Batte il sole, ma donne e uomini pregano e piangono ininterrottamente sui cippi. Il crocchio di autorità attraversa la strada e depone corone di fiori all'ingresso; vicino, sotto la tettoia, si sono radunati gli imam. Ricomincia la preghiera. 

Un improvviso temporale non spaventa. Nessuno si muove dal posto, nonostante lo scroscio d'acqua battente, che passa in breve tempo. Solo quando finisce la preghiera, le casse verdi vengono alzate e passate di mano in mano sopra le teste dei presenti. Nella prima fila ce n'è una più piccola. È di una bimba di tre giorni. A lei hanno reso omaggio centinaia di persone, attendendo in coda. Quasi fosse il simbolo di una barbarie che non ha fatto distinzioni d'età e di genere.
Ancora una preghiera. Poi man mano, il cimitero si sfolla. È pomeriggio inoltrato quando Potočari si spegne.  


(Altre foto puoi vederle qui)







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