30 ottobre 2013

Sarajevo e la (mia) pace a Est

11 luglio 2013, Sarajevo. È l'ultima notte qui, ma ho un'adrenalina in corpo che non mi farà dormire. Samra gironzola per la stanza, facendo zapping in Tv. Tutte le emittenti trasmettono resoconti della giornata di oggi o film e storie che raccontano il massacro di Srebrenica. Dormiamo in un piccolo hotel – qualche vicolo sopra la Baščaršija – che dà sul cimitero all'ombra di un minareto. Samra scherza: «Mia zia direbbe che abbiamo una vista sul futuro».
C'era una luce metallica stasera a Sarajevo. Siamo arrivati al tramonto e ho avuto poco tempo per vederla, ma Mario mi ha indicato tutto quello che ha potuto e così, tra la mia avidità di memorizzare ogni centimetro di marciapiede e i suoi ricordi di una visita fatta appena un mese fa, siamo finiti al mercato. I banchi verdi ormai vuoti, puliti e in ordine, raccontavano che la giornata era finita, ma soprattutto che la vita è andata avanti. È andata avanti anche qui, dove vent'anni fa morirono 67 persone, delle dodicimila vittime di quasi quattro anni di assedio della città (dal 1992). 
Ho cercato questo posto. È il mio ricordo più vivo di ragazzina di quella guerra che sembrava lontana e distava appena 900 chilometri. Mi sono soffermata sulla parete in plexiglas dal fondo rosso, che delimita il mercato e riporta nomi e cognomi della strage di Markale. Ho frugato qua e là, finchè non si è avvicinato un ragazzo. Stava pulendo i banchi e deve avermi letto nel pensiero. Mi ha urlato qualcosa, con fare volenteroso, lanciando una secchiata d'acqua a un metro da me, su una teca in vetro per terra. L'ha pulita e asciugata, facendo il segno col dito su un pezzo di mortaio conficcato nell'asfalto. È quello che il 5 febbraio del 1994 dalle colline attorno a Sarajevo si schiantò sulla gente al mercato. Ho cercato di fare due chiacchiere, ma sono rimasta ammutolita.

È la scacchiera di strade del centro storico che mi ha ammutolita. A ogni angolo si apre un rettilineo che dà dritto sulle colline, là, dove le armi delle truppe serbe e di gruppi paramilitari erano puntate sulla città e sui civili. E a ogni angolo mi son fermata con un senso di inquietudine a guardare le traiettorie disegnate da strade e palazzi che mirano dritte al cuore di Sarajevo. Ferma davanti alla cattedrale cattolica quella sensazione mi ha tolto il fiato. Sono giusta nel mirino, ho pensato. E nel cercare ciò che resta delle Rose di Sarajevo mi sono accorta che ne avevo una proprio sotto i piedi. Boom! Centrata.
I buchi lasciati dai colpi sparati dalle colline sono stati riempiti di vernice rossa. Sono le Rose di Sarajevo. Il tempo le ha sbiadite, ma la sensazione opprimente che sguscia al sol pensiero di quei cittadini sotto il fuoco o il tiro dei cecchini, in una guerra di nervi e sfinimento, si percepisce ancora, almeno io la sento. 
Continuando a camminare si trovano involucri di palazzi di primo Novecento ancora da sistemare, edifici dalla firma asburgica ristrutturati, segni d'Occidente e splendide atmosfere d'Oriente,  foulard e lanternine colorate in serragli e cortili d'altri tempi. Penso a questo crocevia di storia che porta nelle pietre l'Europa e il Medio Oriente. Poi penso a Sarajevo e alla sua maledizione di essere quasi vocata alla guerra. Qui, 99 anni fa, scoccò la scintilla del primo conflitto mondiale. E i luoghi vicini a quello dell'attentato all'arciduca Francesco Ferdinando, come la biblioteca nazionale, sono stati colpiti e incendiati, durante gli anni dell'assedio. Guerra copre guerra.
Penso al poco tempo che ho trascorso qui, con l'ansia di vedere il più possibile e progettando già di tornare. Sistemo le mie cose nella borsa, ricordando il cameriere del ristorante stizzito, che ci ha rimproverato per tutto il tempo, a cena, mentre ci consultavamo per il menù con Samra: «Voi italiani parlate sempre tutti insieme e pretendete che si parli italiano dappertutto». Mah... Punti di vista.
È stata una giornata lunga. Sono stati giorni intensi e impegnativi, eppure non dormirò presto. Ho viaggiato su un pulmino che ha percorso tornanti e valli, seguendo fiumi, trapassando boschi. Ho visitato luoghi incredibili, ascoltato persone e racconti senza stancarmi. Ho dormito a 500 metri da un pianoro che culla nella sua terra settemila morti. Ho visto intrecciarsi culture e volti diversi. Ho passeggiato tra anziani, malati, disabili, matti e ragazzini. Ho rincorso paesaggi bucolici con la Nikon, respirato il lutto di generazioni di donne. Ho visto cosa può fare la brutalità umana, ma anche la solidarietà, in una terra che dovrebbe candidarsi a nicchia di pacificazione, ma racconta una storia ben diversa.
Ed è qui, in questo luogo di lacerazioni, che sono arrivata con le mie di fratture. Col peso di mesi di stretta al cuore e stanchezza, che ora sembrano lontani, grazie a un viaggio senza tempo e senza spazio. Ho seguito un richiamo, una spinta innata verso questi posti lontani, sconosciuti, nascosti da chilometri di boschi e montagne. E ogni sera mi sono addormentata con la pace nel cuore. Qui ho ripreso a scrivere quello che vedo, trovando conferma ancora una volta che sempre a Est ritorno. Sempre da Est viene il richiamo. Da Est viene il vento che mi coglie di sorpresa in serate di tepore o in quelle fredde invernali, dandomi la certezza di essere al mondo. A Est ho appagato occhi e cuore oggi. A Est torno a dormire serena e non sento la mancanza di nulla. Qui, dove le case portano i segni dei conflitti; dove il dolore è sepolto sotto terra. Qui, in una terra lacerata dalla guerra, ritrovo la mia pace. 


Altre foto le trovi qui.


1 commento:

  1. Mi sorprende e mi spaventa il fatto di non considerare le guerre per il solo fatto che non le stiamo vivendo. Anche se vicine, appaiono comunque distanti se non si vivono in prima persona. Non ci avevo mai pensato. Scrolliamo le spalle e diciamo "Tanto è là". O non ci interessiamo del dramma umano o non lo sappiamo comprendere. E forse visitare i luoghi o leggere le sensazioni di chi li ha visitati ci può aiutare a capire...

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